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Rischio populismo sulle autonomieArticolo di Lorenzo Pomini sul quotidiano l'Adige del 20/02/2019
Trovo interessante l’analisi di domenica sul “regionalismo differenziato”, e condivido che fare molta confusione sull’argomento significa portarlo su un binario morto.
Sarebbe un vero peccato, perché penso che uno dei motivi di possibile riscatto economico, morale, sociale e culturale del nostro martoriato paese possa avvenire grazie a quanto sempre più regioni (non solo alcune del nord) stanno chiedendo allo Stato riguardo la possibilità di gestirsi in proprio alcune politiche pubbliche. Non farlo, buttarlo a slogan volgari anche se di facile presa mediatica, come la “secessione dei ricchi”, “voler rompere l’unità del paese” o “l’egoismo di chi non vuol più praticare la solidarietà nazionale”, significa l’ennesimo atto di irresponsabilità di chi vuole mantenere un sistema che da troppi anni mostra di essere alla corda e alla mercé dei tanti populismi buoni per la campagna elettorale. Riguardo il tema più facile da strumentalizzare, e cioè il presunto egoismo dei più ricchi a danno delle regioni italiane che sono in oggettiva difficoltà, rovescerei radicalmente il problema, perché non c’è peggior egoismo che crogiolarsi dentro uno stato di necessità, per non trovare soluzioni autonome che consentano di affrancarvisi, restando quindi attaccati alla flebo delle risorse altrui. Solo per questo varrebbe la pena, per i territori in maggior difficoltà, accedere alle possibilità già previste nella nostra Costituzione di amministrare politiche oggi statali, perché far conto sugli aiuti esterni, genera una dipendenza micidiale allo sviluppo di una comunità. Rispondere in maniera migliore alle necessità dei singoli territori e dei loro cittadini, che in una Italia sempre troppo lunga e stretta sono oggettivamente diversi per orografia, ambiente, clima, tradizioni, cultura, economia e possibilità di lavoro, dovrebbe essere orgoglio non solo della politica locale, ma anche delle stesse comunità che vi risiede. Rovesciare questo paradigma, attuare una vera svolta culturale (non solo politica, quindi) che significa una gestione sempre più diretta dei problemi ed opportunità locali, amministrando la cosa pubblica “senza e meglio” dello Stato, chiedendo maggiori risorse economiche da riprodurre sullo stesso territorio (com’è il caso della nostra Autonomia speciale) e avendo un controllo più diretto dei cittadini sulle modalità di spesa e su quanto viene programmato e realizzato, attuerebbe una vera rivoluzione copernicana all’insegna della maggior credibilità e reputazione, non solo delle singole regioni, ma del nostro sistema paese. Se guardiamo l’esempio di altri Stati già federalisti, in Europa e nel mondo, lì ci si misura sulla capacità di fare meglio e di più, non sull’arte di frenare o innestare la retromarcia a chi ha maggiori doti di inventiva, capacità di produrre, rischiare in proprio, avere visione: non mi pare manchino esempi di solidarietà istituzionale, o ci si straccino le vesti se c’è un territorio migliore dell’altro. Se in questa partita, che non vede coinvolte solo alcune regioni del nord, ma ne sta interessando anche altre, non si liberano le energie migliori, resteremo perennemente condannati ad uno statalismo che fa tanto rima con assistenzialismo della peggior specie (il famoso “uno vale uno”), cioè che premia il mediocre, aiuta l’apatia, allontana la voglia di riscatto sociale e di fare meglio, per se e per le generazioni future. Alla fine, una sana radice della nomea che ci vede dei privilegiati a cui va tolta l’eccezione costituzionale, sta proprio in questa concezione da “furbi”, che vede nella mancata assunzione di responsabilità, individuali e collettive, la panacea di un egualitarismo che castiga il merito e la capacità, i valori e i talenti. Peraltro, anche nelle regioni ordinarie “più bisognose” esistono situazioni di assoluta competenza, professionalità, eccellenze nel privato come nel pubblico, e nessuno se ne lamenta, anzi!, ne diventano un vanto per coprire altre situazioni. Quindi, in quelle regioni ordinarie, sono più egoiste queste eccellenze riguardo la normalità? E se fosse così, perché mostrarle con sano orgoglio e non indurle al “minimo comun denominatore”? Tifare e favorire ogni iniziativa che aiuti a motivare il percorso di autonomia differenziata, non solo perché implicitamente mette più in salvaguardia chi l’autonomia ce l’ha già come la nostra regione, aiuterebbe a rispondere in modo più opportuno alle necessità del singolo territorio, costringere ad un controllo più diretto dei cittadini su come la politica locale gestisce le risorse e contribuisce allo sviluppo e creazione di valore (lavoro, economia, cultura, sociale), può portare ad una svolta culturale che vede meno lo Stato ed i vari ministeri (e ministri…) occuparsi in modo indifferenziato o particolare (a secondo del tornaconto elettorale) della cosa pubblica. In questo scenario, anche il ruolo delle parti sociali, e delle varie associazioni presenti nelle singole comunità, può dare un contributo genuino e sostanziale allo sviluppo di una maggior autonomia. Certo, non va dato per scontato che tutto parta per spinta locale, visto può essere più facile avere un paravento raffigurato da Roma e dalle rappresentanze nazionali. Oggettivamente, è più fatica mettersi assieme sul territorio, provare a trovare insieme soluzioni in una visione del bene comune che significa meno singole bandierine e più pragmatismo generale. Se il sindacato Trentino avesse avuto lo sguardo rivolto a Roma, non avremmo campioni come Laborfonds, o esperienze uniche come Sanifonds o il Fondo di Solidarietà Territoriale. Siamo consapevoli che queste conquiste possono costare in termini di consenso verso le nostre rispettive “centrali romane”, non nascondiamo che siamo additati con una invidia sfavorevole che non meritiamo e che non meritano le tutele particolari ed aggiuntive che abbiamo garantito a tanti dipendenti e che fanno, anche queste!, la differenza tra l’autonomia ed il centralismo. Non riteniamo, avendo ottenuto questi risultati nella nostra contrattazione locale, di essere diventati più egoisti o meno solidali col resto del paese, non pensiamo di avere discriminato i cittadini avendo attuato prerogative della nostra autonomia che hanno consentito maggiori tutele, sviluppo economico, più lavoro: le discriminazioni vere stanno nelle situazioni ingessate, dove non ci si vuol mettersi in gioco e non si pensa a costruire un paese migliore partendo dal proprio contributo, come cittadini e associazioni di rappresentanza.
Lorenzo Pomini |
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